L’assedio di Salerno del 1076 nel racconto di Amato di Monteccasino

Nel giugno del 1076, il Normanno Roberto il Guiscardo, duca di Puglia e di Calabria, che era entrato in conflitto con suo cognato Gisulfo II (ne aveva infatti sposato la sorella Sichelgaita), principe longobardo di Salerno, al servizio del quale aveva intrapreso la sua carriera di conquistatore, pose l’assedio alla città di Salerno. L’assedio durò circa sei mesi e si concluse il 12-13 dicembre dello stesso anno, con la conquista della città da parte del duca normanno. Finiva così l’ultimo principato longobardo dell’Italia meridionale, e Roberto diventava il più potente signore normanno del Mezzogiorno continentale, unendo ai suoi possedimenti di Puglia e di Calabria anche il Principato di Salerno, mentre la Sicilia era nelle mani del fratello Ruggero. Le vicende di quel lungo assedio sono raccontate, con dovizia di particolari ed evocativi aneddoti, da Amato da Montecassino, salernitano che fu monaco nell’omonima abbazia e autore della cosiddetta “Historia Normannorum”. Tale opera, andò perduta nella sua originale stesura latina, e ci è pervenuta solo attraverso una traduzione quattrocentesca in francese antico (“L’Histoyre de li Normant”). Qui propongo una mia traduzione dal francese della parte riguardante l’assedio di Salerno, tratta dall’edizione critica di V. De Bartholomaeis (vedi immagine). Il racconto di Amato tradisce per molti aspetti il suo atteggiamento filo-normanno, e probabilmente esagera nel rimarcare la crudeltà del principe Gisulfo; tuttavia costituisce una preziosa fonte narrativa, redatta da un testimone coevo di quelle vicende.

Libro Ottavo

[…]

XIV. E quando il Duca vide la durezza del cuore del Principe, che non badava all’ammonimento del Papa, né alla volontà degli amici che lo consigliavano per il suo bene, né la preghiera di sua sorella, né badava al danno che gliene sarebbe potuto derivare, riunì tre armate di tre tipi di gente: Latini, Greci e Saraceni, e ordinò che venissero molti uomini e navi per controllare il porti. Ed egli, con cavalieri e balestrieri, nel mese di giugno, ordinò che fossero issate tende e padiglioni presso le mura di Salerno. Poi ordinò che fossero fatti castelli di legno intorno alla città, e fiere e mercati, per vendere e acquistare tutto il necessario; dal canto loro, quelli della città fecero comparire tutte le cose che Gisulfo aveva fatte nascondere. Salerno sembrava nuova, per le cose nascoste che uscivano fuori, e anche l’esercito di Roberto, il quale era all’accampamento, sembrava nuovo nella bella contrada di Salerno. E uscirono molte cose di nascosto dalla città, e il Duca riceveva benignamente coloro che erano cacciati dal Principe, e li manteneva a proprie spese. E venivano alla corte del Duca navi senza fine; le quali non lasciavano che la fame regnasse nell’esercito del Duca, né mancanza di pane, di vino o di carne. Invece nessun Salernitano poteva avere tali cose, né vacche, né castrati, né maiali; poiché erano stati tanto afflitti da Gisulfo che nessuna bestia era loro rimasta. E Gisulfo fece costruire castelli fuori da Salerno, e in verità, tanto fece che non lasciò nessuna costruzione sul monte (del Castello n.d.T.) , piccola o grande, che non fungesse da fortezza. E il Duca cercò di conquistare il castello e mandò gente ad attaccarlo. Ma poiché il monte sul quale sorgeva era difficile da scalare ed era pieno di alberi, coloro che tenevano la rocca non li lasciavano salire.

XV. E Riccardo, Principe di Capua, venne dall’altra parte in aiuto del Duca Roberto; e sgombrò le strade e i fossati e gli alberi disposti per sbarrare il cammino verso Gisulfo. E delle due fortezze fatte costruire da lui, una la distrusse e l’altra tenne per sé. E poi il Duca seppe della vittoria del Principe Riccardo, e di come si fosse impadronito della fortezza. E pregò il principe Riccardo di costruire su un altro monte un altro castello in modo che tutte le strade per Salerno fossero controllate. E anche dalla parte del mare la città fu circondata di navi, e dall’altra parte era cinta da palizzate e da ampi fossati; e qui si ammassavano fanti e cavalieri. La grazia della pietà sciolse il cuore del Duca, e, su preghiera della moglie, chiese ancora una volta la pace. E andò l’abate Desiderio dal principe Gisulfo, affinché, stretto com’era da tanta miseria, rinunciasse al suo coraggio. Ma Gisulfo non ascoltò il consiglio e giurò che in nessuna maniera voleva la pace col Duca.

XVI. E, prima che il Duca assediasse Salerno, il Principe aveva emanato un ordine: che ognuno si dovesse procurare viveri per due anni; chi non era in grado di farlo doveva abbandonare la città. E, quando il Duca pose l’assedio alla città, dopo due mesi, Gisulfo ordinò ai suoi ufficiali di perquisire le case dei cittadini. Fece togliere loro la terza parte di tutti i viveri che trovavano.  E perciò ci fu grande fame nella città, poiché coloro ai quali mancavano i viveri non ne trovavano da comprare; e non si davano più elemosine alla porta, poiché la povertà era grande.

XVII. Soltanto l’arcivescovo Alfano, sosteneva il peso, utile per la sua anima, di vivere; e ciò che aveva, donava ai poveri. Ma egli fuggì da Salerno e fu ricevuto dal Duca come padre, e onorato dal principe Riccardo. E dalle sue terre e da quelle della chiesa, raccolse grande abbondanza di vino e di grano, e riunì attorno a sé i suoi chierici, che governò come figli; e li liberò dalla miseria e dalla povertà con la sua misericordia. E tutti gli altri, uomini e donne, soggetti a lui, chiamò a sé come buon pastore, e donò loro tutte le cose necessarie per vivere

XVIII. E un’altra volta il Principe in persona andò a perquisire le case dei cittadini; e tutti i viveri che trovava li prendeva per sé, e non solo una parte, come aveva fatto in precedenza. Poiché voleva difendere, come poteva, la sua malvagia volontà e avarizia. E dava come se lo comprasse, 3 bisanti per ogni moggio di grano. E distruggeva le case di coloro che erano fuggiti e faceva portare il legno ricavato al castello per arderlo. E poi, quando ebbe distrutta tutta la città, coimciò con Dio e con i santi. Le croci delle chiese, d’oro e d’argento, prese e ruppe; ruppe il volto di San Matteo Evangelista; e distrusse le coppe preparate per il servizio divino.

XIX. E, dopo ciò, vennero a mancare tutti i viveri. E i cittadini cominciarono a mangiare carni che solitamente non si mangiavano: cioè la carne di cavallo, di cane, di gatto; e non rimanevo animali nelle loro case. Il fegato di cane valeva 10 tarì, la gallina 2 tarì, e il suo uovo 2 denari. E quando il Principe andava spesso per la città e vedeva i cadaveri giacere per strada, non si degnava di guardarli; ma, anzi, come se non avesse colpa di tutto ciò, passava allegramente. E, alla fine, aprì il granaio dove c’era il suo grano, e voleva rivendere le vettovaglie che aveva comprato dai suoi sudditi. E vendeva il moggio di grano, che aveva comprato a 3 bisanti, per 44 bisanti, a coloro che potevano comprarlo. Ma tra gli altri che erano poveri, il padre non poteva seppellire il figlio, né il figlio il padre. E alcune volte, per la grande debilitazione dovuta alla fame, i vecchi morivano come bestie, senza benedizione di prete; i giovani morivano di morte subitanea; e i bambini, che non si potevano battezzare, morivano pagani. E le donne che dovevano partorire non avevano l’aiuto di altre donne.

XX. Così, i Salernitani erano stretti da questa povertà e miseria, la quale può essere paragonata a la fame di Gerusalemme quando fu presa dai Romani, poiché i Giudei che erano in quella città, per gran povertà, si lasciarono vendere in 30 per un denaro. E, mentre i Salernitani erano così oppressi, due figli di un prete andarono fuori città e un cane li seguì. E vennero là dove era il Duca, e chiesero del pane in nome di Dio. E del pane fu loro dato; e di quel pane i ragazzi ne diedero un terzo al cane. E il cane prese il pane e lo nascose, affinché non gli fosse tolto. E la sera, mentre la gente era raccolta nelle proprie case, il cane tornò in città e depose ai piedi del prete il pezzo di pane; e poi tornò da dove era venuto. E il giorno seguente, i ragazzi ebbero molto pane e diedero al cane un pane intero; tuttavia, essi non sapevano cosa ne facesse il cane del suo pane. E il cane, la sera, come aveva fatto il primo giorno, portò il pane al prete. E il terzo giorno fece lo stesso; e il prete credeva che qualche buon cristiano gli mandasse quel pane per amore di Dio. E allora mise un biglietto al collo del cane, nel quale era scritto: “Rendo grazie a Dio per il cui amore queste elemosina mi viene fatta, poiché essa mi ha sostenuto nel bisogno; non mancherò di pregare Dio per te”. E poi il cane tornò; e, quando i figli del prete videro il biglietto al collo del cane, lo slegarono e lo condussero alla Duchessa (Sichelgaita) assieme al biglietto, raccontandole come s’era svolto il fatto. Ma la dama non ci credeva, e fece preparare un sacchetto pieno di pane, che fu messo sul cane. Ma il cane aveva paura per la gente che c’era da entrambi le parti; quasi come se dubitasse d’essere accusato al Principe; quindi attese l’ora in cui era abituato, e quando fu sera, andò dal prete, portandogli il pane datogli dalla Duchessa. E il prete scrisse un altro biglietto: “Ti ringrazio ancor di più per la più grande elemosina che mi hai mandato”. E, quando la Duchessa vide l’intelligenza del cane, ordinò che non gli fosse fatto alcun male, e sostentò, per amore del cane, i figli del prete. Ma poi il Principe lo venne a sapere, e ordinò che il cane fosse ucciso; il prete padrone del cane fu imprigionato; e fu marchiato a fuoco e afflitto con altri supplizi, fintanto che ne morì. E nessun altro uomo osava andare al cospetto del Principe per esporre la propria miseria e povertà; e, se qualcuno lo faceva, egli gli faceva cavare gli occhi o gli faceva amputare la mano o il piede, o lo affliggeva con altra punizione.

XXI. Tra gli altri che egli afflisse con vari tormenti, c’era un onorabile chierico, di nome Graziano, il quale era stato cappellano di suo nonno e di suo padre. Poiché il fratello e il nipote di questo Graziano mal sopportavano la crudeltà di Gisulfo, andarono dal Duca, il quale li arricchì e onorò. E Gisulfo, per l’invidia che ne ebbe, voleva vendicarsi sul chierico innocente. Innanzitutto, gli tolse tutti i suoi averi, poi tutti i benefici ecclesiastici, e lo costrinse a giurare nelle mani dell’arcivescovo che mai avrebbe ricevuto alcunché dal fratello. E, infine, lo fece imprigionare; per la qual cosa ne fu tanto afflitto dalla fame e dai vermi che lo divoravano, e da altre angosce, che divenne martire di Dio.

XXII. E Il duca, avvertito dal principe Riccardo, rifornì il castello di buone guardie. Preparò l’assedio della città e fece arrivare nuove schiere di fanti e cavalieri; poiché Riccardo voleva tornare a Capua per conquistare le terre della Chiesa. E poi con il Duca andarono a San Germano.

[…]

XXIV. [Tornato a Salerno, Roberto] fece dare battaglia; e furono lanciate frecce e pietre; ma nessuno si mostrava dalla città, poiché erano nascosti come topi nella tana. E, se qualcuno avesse voluto lanciare pietre con la fionda, avrebbe ferito piuttosto i suoi che i nemici. E quelli vegliavano la notte a turno tanto erano indeboliti, che appena si potevano udire le loro voci. Il Duca vide che poteva prendere la città per forza, poiché nessuno della città si opponeva ai suoi. Ma, temendo la morte dei civili che vi abitavano, e che la povera gente non perdesse le loro cose, non voleva. Ma intanto si avvicinava il tempo che il Duca avrebbe potuto soddisfare il suo desiderio, e fosse messo termine alla pestilenza in quella città. E avvenne un fatto strano, cioè una grande oscurità, per la quale non si riusciva a scorgere colui che era al proprio fianco. E un Salernitano si recò dal Duca e gli raccontò tutto ciò che sapeva sulla città. Poi, in compagnia di alcuni uomini, andarono presso una posterla, che era stata murata di recente; ruppero il muro ed entrarono in città. Andarono un po’ in giro, salendo sulle mura ed entrando nelle torri, e non trovarono nessuno. Poi tornarono dal Duca a riferire di questo fatto. Ed egli, saggiamente, mandò di nuovo con loro cavalieri e altri uomini armati, e coloro che guardavano la torre furono presi e legati, e affidati in custodia agli ufficiali. E si lasciarono legare senza dire una parola tanto erano debilitati dalla fame, e non erano in grado di combattere. E, dopo che nella torre furono poste le guardie del Duca, i forti cavalieri normanni cominciarono a a gridare e ad annunciare la vittoria al Duca. E Gisulfo, quando li udì, cominciò a fuggire; si alzò dal letto e corse verso la rocca. E si preparò alla vendetta. Il giorno seguente, che era il XVI delle idi di dicembre, il Duca vincitore mandò la sua gente nella città. E poi li seguì, e diede pace alla città, poiché, come Dio gli aveva concesso la vittoria davanti al castello di Salerno e a quello di Amalfi, così ora in una notte gli concesse la città; e Dio prevenne il malvagio proposito di Gisulfo, il quale aveva pensato di bruciare la città. E, quando i l buon Duca ebbe visto la povertà dei cittadini, ordinò che nella città si tenesse il mercato, e fece venire vettovaglie a buon mercato dalla Calabria e da altre parati. E in un luogo adatto fece costruire un meraviglioso palazzo a cavallo delle mura della città, parte fuori, parte dentro di essa. E dopo di ciò, fece circondare la torre da grandissime palizzate e vi mise delle guardie; e fece abitare il castello, che Gisulfo aveva fatto costruire per difendere la rocca. Nel frattempo, Gisulfo utilizzava le sue macchine per lanciare pietre dalla rocca. Un giorno, per opera del diavolo che lo aiutava nella sua perversità, una pietra lanciata contro la torre si ruppe e una scheggia colpi il Duca al costato; e parve che ne dovesse morire. Ma, per la virtù di Dio, in poco tempo guarì.

[…]

XXVI. Nel frattempo, a Gisulfo cominciarono a scarseggiare i viveri, e dava tre once di pane a ciascun uomo e un’oncia di formaggio, mentre solo lui beveva vino, e i fratelli ne bevevano un poco. E già si mostrava la magrezza sui loro visi, e la forza mancava nelle loro membra. E non lanciavano più pietre, né lanciavano insulti verso quelli della città come avevano fatto in precedenza. E la sorella di Gisulfo mandò a chiedere viveri alla Duchessa, sua sorella. E lei le mandò a dire che doveva riconciliare suo marito con la buona volontà de suo cattivo fratello. E la Duchessa ebbe una di queste due grazie: cioè che fossero mandati cibi deliziosi ai suoi fratelli: pesci, uccelli e vino buono, e altre cose squisite; ma Roberto non le volle concedere la sua buona volontà.

XXVII. E quando Gisulfo vide la larghezza e la misericordia del Duca, pregò di potergli parlare; e il Duca non volle ascoltarlo. E arrivarono i primi messaggi, poi i secondi, poi i terzi, che chiedevano tale cosa. E, infine, il Duca accettò la volontà del Principe, il quale di notte scese dalla rocca; e il Duca si mosse verso di lui, ma non voleva concedere la pace; e dopo aver ascoltato il Principe, gli disse: “Io credevo, per la parentela che strinsi con te, che il mio onore ne sarebbe stato accresciuto, e che tu mi saresti stato di aiuto, non soltanto nel difendere la mia terra, ma anche nell’aiutarmi a conquistare nuove terre”. E il Principe rispose. “Ah, tu mi hai esposto al vituperio di tutti; e sono distrutto io e la mia gente. E non avresti dovuto considerare la parentela dei Normanni, ma la mia parentela, che ci aveva uniti assieme. E ora mi vuoi scacciare dall’eredità di mio padre, tu che avresti dovuto farmi conquistare nuove terre”. E il Duca, a bassa voce, rispose: “Tu saresti potuto essere elevato dal matrimonio con tua sorella, come dici, e esserne arricchito, senza la tua impazienza e arroganza, e se non avessi disatteso il mio servizio. E su tutti gli altri principi avresti potuto elevarti; poiché solo da me avresti potuto avere diecimila combattenti. E tu, per distruggermi, andasti dall’Imperatore di Costantinopoli e cercasti l’aiuto del Papa; e per distruggermi del tutto, chiedesti l’aiuto di mia moglie. E in tutto mi avevi in odio, e non volesti accogliermi come tuo cavaliere. E io ti chiesi la pace per quelli di Amalfi, e non volesti concederla né per mia preghiera né per altri ammonimenti.  E ora, per la grazia di Dio, ho dato la pace a quelli di Amalfi e di Salerno”. E dopo aver detto queste parole, senza dire altro, se ne andarono. E la Duchessa spesso andava alla rocca, e rimproverava suo fratello del fatto che non volesse ascoltare il suo consiglio. E un’altra volta Gisulfo tornò dal Duca; ed ebbe la stessa risposta ricevuta innanzi.

XXVIII. Poiché la sua richiesta non trovava ascolto, pregò il Duca, affinché ritirasse la sua gente, perché doveva tornare al castello dove risiedeva, e che poi andasse da lui a parlare. E il Duca lo fece. E Gisulfo prometteva di rendere la rocca; ma a patto che a lui e alla sua gente fosse concesso di andare via. Ma non se ne fece nulla perché il Duca non voleva la rocca senza il principe. Allora il Principe cedette la rocca e si arrese. Il Duca allora lo fece custodire e mandò la sua gente a presidiare la rocca, le mura e le torri. E, quando Giovanni, fratello di Gisulfo, consegnò la rocca, la guarnigione aveva paura della vendetta del Duca. Ma egli, con la sua presenza, li rassicurò. E fece venire dei cavalli sui quali fece montare i più nobili tra loro, scortati da suoi soldati, e con tutti gli altri li mandò alla sua corte. E il mattino dopo restituì le abitazioni a quelli della guarnigione, perdonando loro le colpe. E poi il valoroso duca Roberto ricevette grandi onori e attestazioni di amicizia.

XXIX. e quando tutto ciò fu compiuto, il Duca pregò il Principe affinché gli donasse il dente di San Matteo, che aveva sottratto dalla chiesa, cosa che egli sapeva; infatti egli non voleva che la città perdesse quella preziosa reliquia. E il principe disse di volerglielo consegnare, ma, di nascosto, ordinò al suo camerario di portare il dente di un ebreo morto da poco; e lo fece mettere in un bel drappo di seta e lo mandò al Duca. Ma il duca, che era saggio, intuì la malizia di Gisulfo: fece chiamare il prete, che sapeva com’era fatto il dente, e quanto era lungo. Quando vide che il dente non era fatto come quello descritto da prete, ne fu molto corrucciato, e mandò a dire al Principe che, se non avesse avuto il dente di San Matteo entro il giorno seguente, avrebbe strappato a Gisulfo un suo dente. Allora immediatamente arrivò un messaggero che portava al duca il vero dente del Santo, che possedeva Guaimaro, il malvagio fratello del Principe; e lo diede al devoto duca Roberto. Questo Guaimaro era tanto pessimo e malvagio, che durante gli scompigli dell’assedio, non ebbe scrupolo a violentare la vergine alla quale aveva giurato di difendere la sua verginità; non ebbe alcuna remora a corromperla.

XXX. E il Duca, al fine di ripulire il Principato da tutti gli scandali e salvarlo, chiese il castello di Guaimaro che egli teneva per conto di Gisulfo. Costui lo contraddisse e con i suoi falsi argomenti cercava di ingannare il Duca. Allora, Roberto fece venire nel porto una nave e ferri per legare il Principe e mandarlo in catene a Palermo, per essere internato a vita. Ci furono poche lacrime, poiché solo le sue sorelle piangevano, mentre tutti gli altri erano lieti per questa notizia. E vennero i fratelli di Gisulfo; e come fu loro ordinato, Landolfo rese i castelli di Sanseverino e Policastro, e Guaimaro rese quello del Cilento. E così ebbero fine tutte le dispute. E Gisulfo giurò che non avrebbe mai più richiesto, per sé o per altri, il Principato di Salerno. Ma questo giuramento presto rinnegò, come aveva fatto con quelli di Amalfi. E la Duchessa, per ordine del Duca, gli regalò molte cose, e il Duca gli diede mille bisanti, cavalli e muli. E quindi Gisulfo fu privato del Principato suo e dei suoi antenati, e se andò presso il principe di Capua Riccardo, e fu ricevuto gentilmente, e ospitato onorevolmente […]

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