Boemondo alla battaglia di Antiochia

la Canso d’Antioca è un poema in lingua occitana, del XII secolo, che racconta le vicende della Prima Crociata, con particolare riferimento alla presa, prima, e alla difesa dopo, della città di Antiochia tra il 1097 e il 1098 . Esso ci è giunto in forma mutila con 700 versi.

La città era stata conquistata dalle armate crociate, dopo un lungo assedio, durato dal 21 ottobre 1097 fino al 2 giugno 1098. Ma già il 7 giugno seguente, una potente armata turca condotta dall’atabeg di Mosul Kherboga, arrivò alle porte di Antiochia per riconquistarla. I Crociati, già fortemente provati dal lungo assedio precedente, si resero conto di non essere in grado di resistere a loro volta a un nuovo assedio; decisero quindi di tentare il tutto per tutto uscendo ad affrontare in campo aperto le preponderanti forze nemiche. La sortita ebbe successo e le truppe turche furono messe in fuga: in quella battaglia fu scritta una delle pagine più epiche di tutta la storia delle Crociate.

I versi frammentari del poema cantano proprio di quella battaglia e dei suoi eroi. Una delle scene di maggiore effetto (descritta anche da altri cronisti crociati) è quella della sfilata in colonna di tutte le forze cristiane, raggruppate sotto i loro leggendari capi. Un lungo corteo di cavalieri e fanti attraversa il ponte sull’Oronte, che dai cancelli della città conduceva in campo aperto, verso il nemico. Il poeta narra l’epica scena in maniera encomiastica, descrivendo uno ad uno tutti i capi crociati. Io ho qui tradotto dal provenzale, il frammento che riguarda uno dei più famosi condottieri di quella impresa, il normanno Boemondo d’Altavilla.

[…]
Quel bel mattino all’alba
Uscirono i Franchi fuori per il ponte in campo aperto,
Si riunirono davanti alla Moschea;
Là alzarono umilmente la croce,
E poi levarono la venerata lancia,
Dalla quale Dio ricevette la morte sul Golgota.
Il figlio di Roberto il Guiscardo – colui il quale aveva bellamente conquistato
Puglia e Calabria e Salerno e Taranto,
Volterra e Canosa, fino al mare,
Per profitto del papa e per suo ordine,
E che vinse in battaglia due imperatori –
Ordinò le truppe sul campo,      
E cavalcava quel giorno il Rosso (Boemondo) [lacuna]
Giammai udiste parlare di un barone meglio armato;
Portava sul suo gambesone un usbergo ghiazzerino,
Circondato di pietre preziose, non meno di cento;
Portava uno scudo di Melfi, valente città,
Al fianco sinistro una lunga spada di Lorena;
Le redini fatte di stoffa che chiamano bouqueran;
Aveva una lancia lunga e grossa con una cuspide d’argento;
Sul suo gonfalone, che garriva al vento,
era dipinta una vipera selvaggia.
[…]

Interessante è la descrizione dell’equipaggiamento di Boemondo: l’usbergo, la lancia, la lunga spada, ma due particolari saltano agli occhi:

1) lo scudo. Fatto a Melfi dice l’Autore. Melfi era stata fino a qual momento, possiamo dire la “capitale” dei Normanni meridionali. Lì nel 1042, dodici capi normanni, per la prima volta, s’erano spartiti tutti i territori conquistati nel Mezzogiorno; e lì successivamente, nel 1059, il papa aveva formalmente riconosciuto il loro diritto a governare quelle terre. Il fatto che l’autore parli di uno scudo forgiato a Melfi, sta indicare con tutta probabilità che nella città esistesse una fabbrica di armi, o quantomeno artigiani rinomati in quell’arte.

2) Il gonfalone. La menzione della vipera dipinta su di esso rappresenta un’importante testimonianza sull’uso delle insegne usate dai Normanni in quel periodo, quando ancora l’araldica non era stata codificata e i blasoni familiari ancora non esistevano. La vipera richiama di certo i tanti esempi di rappresentazioni zoomorfe visibili nelle figure dell’Arazzo di Bayeux; ma al tempo stesso richiama alla mente antichi elementi pagani di origine scandinava, evidentemente ancora in vita presso i cristianissimi Normanni del tempo.

Bibl. – Paul Meyer, Fragment d’une Chanson d’Antioche en provençal, in Archive de l’Orient Latin, t. II, paris 1884, p. 467 e ss.

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