Il duello (mancato) dei due Re

Nel novembre del 1282, la Sicilia è saldamente nelle mani degli insorti antiangioini e delle truppe di Pietro d’Aragona, l’assedio di Messina è stato spezzato e le truppe siculo-aragonesi si apprestano ad oltrepassare lo stretto per invadere il Continente. È in questi frangenti che prende vita uno degli avvenimenti più singolari della storia del tempo, il duello dei re, fatto che fece scalpore in tutta la nobiltà europea: due sovrani cristiani si sfidavano a singolar tenzone secondo i codici d’onore, come due semplici cavalieri.

Il primo passo fu fatto da Carlo d’Angiò, che inviò due messi a Pietro recanti la sfida al duello, accusando l’Aragonese di essere entrato proditoriamente in armi nel Regno a lui concesso in feudo dal papa. Pietro, di contro, inviò altri due legati, ribadendo dal canto suo la legittimità dell’intervento derivantegli dal diritto al trono di sua moglie Costanza (figlia di Manfredi) e dall’invocazione d’aiuto del popolo Siciliano.

Si decise di nominare dodici cavalieri, sei per parte, che, riunitisi a Messina stabilirono i tempi e le modalità della disfida. Innanzitutto, in considerazione della figura dei contendenti e della disparità fisica e anagrafica dei due (Carlo con i suoi 56 anni era molto più anziano di Pietro), si pattuì che al duello, che assumeva così il carattere di una disfida, partecipassero anche cento cavalieri per parte. La data prescelta fu il 1 giugno del 1283. Successivamente, a fine dicembre dell ’82, furono emanati due manifesti, uno per parte ma sostanzialmente identici, che regolamentavano scrupolosamente l’evento. Esso si sarebbe dovuto svolgere in territorio neutrale, a Bordeaux, che allora era parte dei domini del re Edoardo d’Inghilterra in terra di Francia, il quale veniva anche nominato arbitro e garante. I due contendenti avrebbero atteso sul campo l’arrivo del re d’Inghilterra per trenta giorni, trascorsi i quali si sarebbero presentati di fronte ad un eventuale suo legato.

Stando alle testimonianze dei contemporanei, la posta del duello non era ben chiara. Secondo alcuni il perdente avrebbe dovuto rinunciare al trono, ma nei documenti ufficiali che regolamentavano da entrambe le parti la disfida, non si fa cenno a tale evenienza e si parla solo delle conseguenze che sarebbero ricadute su chi dei due non si fosse presentato all’appuntamento, ovvero: “per tutto il tempo della sua vita sarebbe stato ritenuto, vinto, pergiuro, falso, fallito, infedele e traditore, e che mai più avrebbe potuto fregiarsi del nome e dell’onore di re”.

Come era del resto prevedibile, il duello non ebbe mai luogo. Edoardo – impegnato nella guerra in Galles e forse spinto dal papa, che era fermamente contrario al duello –  si disse indisponibile a presenziare, ordinando al siniscalco di Bordeaux di mettere il campo sotto la giurisdizione del re di Francia, la qual cosa, però, faceva venire meno le condizioni di neutralità. Nel frattempo, Carlo si era mosso dal Regno e il 24 maggio era già sul campo di Bordeaux, accompagnato da migliaia di uomini, e non solo dai cento previsti. Tali mutate condizioni fornirono a Pietro l’occasione per far saltare il banco. Accompagnato solo da tre fidi cavalieri, il 31 maggio si presentò a sorpresa sul campo al cospetto del siniscalco inglese. Avuta conferma del fatto che ivi si trovavano ingenti truppe francesi, fece tre volte il giro del campo a cavallo con lo stendardo spiegato, dopodiché stese un atto di protesta e si allontanò velocemente. Carlo, saputa la notizia, mandò invano al suo inseguimento numerosi cavalieri.

Così si concludeva quella che per alcuni era stata tutta una farsa, i cui esiti erano forse già previsti; ma cosa aveva spinto re Carlo a inscenarla e Pietro suo malgrado ad accettarla? Probabilmente il sovrano angioino aveva così pensato di rimediare alla caduta di prestigio derivatagli dalle sconfitte in Sicilia e parare la minaccia di invasione che gravava sul proprio regno. Quindi, più che di farsa, possiamo parlare di propaganda scientemente orchestrata, che faceva leva su quello spirito del tempo largamente pervaso dagli ideali dell’onore e della virtù cavallereschi, per imporre ai suoi sudditi ancora tentennanti, il dominio angioino.

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