Castellabate, una enclave almugavera in pieno territorio angioino durante la Guerra dei Vent’anni

Castellabate, il piccolo e grazioso centro in provincia di Salerno, è divenuto famoso per molti per essere stato il set dell’arcinoto film “Benvenuti al Sud”. Ma molti non sanno che nel Medioevo, per circa tredici anni, fu un luogo di cruciale importanza nel corso della lunga guerra (La Guerra dei Vespri, o Guerra dei Vent’anni), che vide contrapposti gli Angioini di Napoli contro i Siculo-Aragonesi. Dopo la conquista-liberazione della Sicilia, questi ultimi lanciarono più volte attacchi contro il Continente, rimasto in buona parte in mano angioina, con l’intento di arrivare fino a Napoli. A Napoli non vi arrivarono mai (se non qualche secolo dopo, ma questa è un’altra storia), però s’impadronirono dei mari meridionali grazie all’abilità dei marinai catalani e siciliani e, soprattutto grazie all’opera del leggendario ammiraglio Ruggero di Lauria. Per terra, invece, grazie alle gesta dei formidabili combattenti almugaveri, conquistarono, in varie fasi, buona parte della Calabria e della Basilicata, spingendosi sin quasi alle porte di Salerno. Successive controffensive angioine riuscirono a scacciarli da molte delle postazioni occupate, ma una in particolare, resistette per ben tredici anni ad ogni tentativo di liberazione, Castellabate. Questa era stata conquistata agli inizi del 1286, quando una flotta siculo-catalana fece sbarcare un nutrito contingente di almugaveri, che da allora si insediarono stabilmente stabilendo una testa di ponte che resisterà fino alla fine della guerra. Così le propaggini dei domini aragonesi si estendevano pericolosamente verso nord, molto vicine a Salerno e alla stessa Napoli. La collocazione geografica del castello ne faceva una rocca inespugnabile: situata su di un’altura che scendeva a strapiombo verso il mare, aveva praticamente una sola angusta via di accesso dalla parte di terra, che passava su di uno stretto crinale, e rendeva difficile qualsiasi approccio via terra ad eventuali assalitori. Tale posizione le consentiva, al tempo stesso, di essere costantemente rifornita di viveri e uomini via mare dalla flotta siculo-aragone, padrona del basso-medio Tirreno. Durante i tredici anni che durò il possesso dei feroci almugaveri (sugli almugaveri e le loro gesta nel Mezzogiorno durante la Guerra dei Vent’anni, vedi l’altro mio articolo su questo sito) della roccaforte di Castellabate tutto il territorio circostante, in pratica buona parte del Cilento storico – l’area cioè che si estendeva attorno al Mons Cilentum, l’attuale Monte Stella – fu duramente provata dai saccheggi e dalle devastazioni operate dalle bande almugavere. Benché completamente circondato completamente da territori ostili in mano al nemico, e la lontananza delle basi amiche, dal castello partivano le bande di scorridori per saccheggiare campagne e borghi limitrofi. Negli anni immediatamente successivi alla resa della roccaforte, diverse sono le testimonianze che attestano lo stato di abbandono e desolazione nel quale era piombato tutto il territorio circostante. Molti villaggi furono completamente distrutti e spopolati e alcuni di essi furono, da quel momento, addirittura cancellati dalla topografia del territorio e scomparvero definitivamente dalle carte.

Nel corso della guerra almeno due importanti tentativi furono condotti dai franco-napoletani per riconquistare la piazzaforte: nel 1292 il giovane erede di Carlo II, Carlo Martello, sembrava deciso finalmente a liberare la regione dal covo di Castellabate divenuto receptaculum Siculorum hostium, e annunciava a tutte le univeristates del Principato di voler muovere personalmente all’attacco della roccaforte, convocando per l’8 agosto a Eboli i loro uomini. Nonostante ciò, il progettato attacco a Castellabate dovette miseramente abortire, in quanto non si hanno notizie successive riguardanti combattimenti o concentramenti di truppe. Il Castello dell’Abate, rimarrà ancora saldamente nelle mani degli almugaveri per ancora qualche tempo continuando a rappresentare una minaccia costante per tutte le terre circostanti.

Un secondo tentativo fu avviato il 4 aprile del 1296, quando fu ordinata in Salerno la costruzione di sei grandi trabucchi, che dovevano essere trasportati da enormi carri trainati da bufali sin sul luogo delle operazioni. Dal 20 aprile iniziano le operazioni di assedio: con la costruzione di fossati e palizzate in loco,. A capo delle operazioni era Tommaso di Sanseverino, conte di Marsico. Ma qualcosa dovette andare storto, poiché ancora una volta – come era già accaduto in passato – l’assedio fu differito e, al 29 aprile, i lavori per la costruzione dei trabucchi di Salerno, erano ancora in alto mare.

Finalmente i preparativi del nuovo assedio iniziarono nel settembre del ’98, per la precisione il 14. Carlo II affidò di nuovo il comando delle operazioni a Tommaso Sanseverino mettendo a sua disposizione fondi, uomini e mezzi: alcuni stipendiarii regi, il capitano del Principato con le sue truppe, uomini delle terre circostanti, una galea e i trabucchi conservati a Salerno dal precedente abortito tentativo d’assedio. Nel gennaio del ’99 l’assedio sembrava essere entrato in piena fase operativa e Carlo annunciava di volervisi recare di persona o, quantomeno, inviare un altro capitano con nuovi rinforzi. Il 31 di questo mese, nel chiedere nuove sovvenzioni al giustiziere del Principato, ricordava quanto fosse stata nociva la presenza di quel covo di nemici per la regione in tutti quegli anni. Ora, aggiungeva, finalmente l’assedio era formato, le truppe erano disposte nei luoghi opportuni e non bisognava far mancare l’apporto decisivo per la soluzione definitiva.

Finalmente, il 7 marzo, si arrivò alla definizione dei capitoli di resa. Evidentemente il castello risultava molto difficile da prendere d’assalto e – come accadde per molte altre piazzeforti della Calabria – si cercò la soluzione diplomatica. Il capitano della fortezza, Apparicio de Villanova, propose le condizioni della capitolazione, che furono accolte da Carlo. In esse si stabiliva che si permetteva la partenza di nunzi per la Sicilia per chiedere rinforzi. Trascorsi trenta giorni, se i rinforzi fossero arrivati – con lo sbarco di truppe che potevano attestarsi su una delle alture circostanti o nell’unica pianura a valle della rocca – gli assedianti avrebbero dovuto rilasciare gli ostaggi concessi (il documento contiene i nomi di 18 ostaggi) e la soluzione sarebbe stata affidata alle armi. Se, invece, durante questo lasso di tempo, alcun aiuto fosse giunto dalla Sicilia, si impegnavano a consegnare il castello nelle mani angioine. In cambio, però, gli uomini della guarnigione («stipendiarii, almugaveri et malandrini») avrebbero ottenuto la remissione di tutte le colpe commesse in passato e la facoltà di poter scegliere tra il rimanere al servizio degli Angioini oppure di essere trasportati via mare a Tropea, o in altro presidio siciliano, sani e salvi. Gli aiuti, chiaramente non arrivarono mai, e infatti, il 4 aprile – già prima della scadenza dei 30 giorni – Carlo emanava disposizioni per il pagamento degli stipendi agli almugaveri di Castellabate passati al servizio della Corona angioina. Si trattava di 5 cavalieri e 27 fanti, dei quali si elencavano i nomi e si specificava l’ammontare dell’ingaggio.

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