Alle origini della “guerra di corsa”

La cosiddetta “guerra di corsa”, che imperversò nel Mediterraneo e successivamente nell’Atlantico per tutti i secoli dell’età Moderna, era già praticata a partire almeno dal XII secolo dalle potenze del tempo. Tradizionalmente si distingue il “corsaro” dal “pirata”, in quanto il primo agiva su “licenza” di un determinato sovrano o stato, attaccando navi appartenenti ai loro nemici e dividendo il bottino con il “mandante” o il concessore della “patente” di corsa; il secondo, invece, agiva in maniera del tutto privata, senza riguardo per la nazionalità della preda e trattenendo il bottino esclusivamente per sé. Tuttavia, tale distinzione, – che diventerà via via più chiara, soprattutto più tardi nello scenario Atlantico – era poco definita sia dalle cronache sia dai documenti ufficiali nel Mediterraneo del XIII secolo.
Ma, forse, è proprio nel vasto scenario della Guerra dei Vent’anni (o del Vespro), dove il Mediterraneo diventa luogo di uno scontro lungo e aspro tra due potenze marinare, che il fenomeno della guerra di corsa diventa per la prima volta percepibile nelle sue forme peculiari. Come abbiamo visto in precedenza da alcuni episodi, durante il conflitto del Vespro la guerra di corsa fu largamente praticata da entrambe le parti in lotta. Esempio emblematico dell’intreccio tra guerra di corsa condotta in nome e per conto della Corona fu proprio quello del massimo protagonista della guerra navale: Ruggero di Lauria.
In effetti, proprio il suo ufficio di ammiraglio lo poneva quale massimo responsabile, non solo delle operazioni strettamente militari, ma di tutto ciò che riguardava, da una parte le attività marinaresche, dall’altra il finanziamento e la sussistenza della flotta stessa. Quest’ultimo aspetto, in particolare, lo spingeva a condurre personalmente le azioni di saccheggio sia nei confronti delle città del Regno sia di altre regioni non direttamente belligeranti. In tale contesto, bisogna distinguere tra le azioni condotte direttamente dalla flotta al suo comando da quelle, per così dire, delegate a capitani “corsari”. In entrambi i casi si trattava, tuttavia di forme di guerra “convenzionale”, almeno per il tempo, nel senso che, come accadeva per la guerra terrestre, il saccheggio dei territori nemici serviva sia a colpire le fonti di approvvigionamento sia ad incamerare foraggiamento e bottino per il proprio esercito.

Esisteva un meccanismo di affidamento (ciò che in futuro sarà nota come “patente” per i corsari) in base al quale al pirata-corsaro veniva concessa licenza di corsa previo diritto del quinto del bottino da versare all’ammiraglio. A partire dal 1288, le leggi aragonesi fissarono criteri più rigidi nell’affidamento delle “patenti” di corsa, criteri che prevedevano il versamento una fideiussione, la quale serviva a garantire il pagamento di forti sanzioni in caso di infrazioni alle regole di ingaggio; mentre il corsaro era obbligato a rientrare, con l’eventuale bottino, nel porto dove la nave era stata armata e dove lo stesso poteva essere trattenuto in attesa di acclararne la provenienza e la liceità.

Nel campo angioino, gli Amalfitani furono molto attivi nella guerra di corsa anti-aragonese e numerosi sono gli episodi riscontrabili nei Registri Angioini che vedono coinvolti imbarcazioni e marinai amalfitani, assalire, depredare e catturare navi commerciali siciliane che  attraversavano il Tirreno meridionale.

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